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La Grande Amarezza

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La scena di apertura è la parte migliore e più intensa. Il film sta tutto lì, in quei dieci minuti di delirio che Paolo Sorrentino, molto abilmente e quasi malignamente, prolunga fino quasi al punto di disagio fisico dello spettatore. C’è l’Italia di oggi: post-sessantottismo, post-DC, post-Craxi, post-Berlusconi. Ci sono quattro generazioni omologate nell’abbigliamento, negli usi ed abusi, nel look, nella volgarità. La linea di demarcazione generazionale si perde in un oblio di moralità da fast-food, in un egocentrismo decadente. C’è la musica degli anni ’60-’70 trasformata e riarrangiata per questa epoca che si finge moderna ma non lo è. Ci sono gli intellettuali di mezza tacca, la borghesia reazionaria, l’aristocrazia mondaiola ma anche gli aspiranti nessuno. Ci sono i nani e le ballerine. C’è pure Serena Grandi! E dietro, oltre il neon Martini (Martini? There’s a party!), c’è Roma. Sarebbe potuto finire li’ il film, e forse sarebbe stato da Oscar. E invece è andato avanti altre