Non gioco più, me ne vado

Ci sono voluti sei anni. Sei lunghi anni durante i quali, giorno dopo giorno, il sogno che tutti gli ex espatriati hanno, quello di costruire un futuro sostenibile nel proprio Paese d’origine, si è infranto, schiantandosi frontalmente contro un muro. Ci sono voluti sei anni, due figli, un mutuo da pagare, un lavoro mai realizzatosi ed una serie interminabile di episodi, che come una goccia che scava la roccia, hanno eroso il mio entusiasmo giorno dopo giorno, mese dopo mese. Sei anni per maturare una decisione che forse avrebbe dovuto essere stata presa qualche anno prima: quella di rifare le valige e tornare a migrare. Meglio essere un’espatriata di lusso che non una rimpatriata di troppo. Sei anni per dire basta ad una situazione di ripiego in cui la dignità è diventata un’altra comodità da barattare in cambio di buon cibo a tavola ed una nuotata al mare d’estate con la famiglia. A fine Febbraio mi trasferirò in Canada con tutta la famiglia. Come dice sempre mia nonna: nella vita si chiude una porta e si apre un portone. Per un Paese che non mi vuole, il mio, che mi ritiene “troppo qualificata” (per cosa?), ce n’è uno dall’altra parte del pianeta che è disposto a fare carte false per avermi. In Canada non solo avrò un lavoro prestigioso, ben retribuito e gratificante ma avrò anche accesso ad ottime scuole, servizi eccellenti, una comunità funzionante. ma soprattutto, avrò il privilegio di riscrivere la parola “futuro” nel mio vocabolario. Con l’Italia, un Paese sull’orlo di una crisi di nervi, abitato da persone nevrotiche, egoiste ed individualiste, ho chiuso. L’Italia sarà sempre la mia casa e non potrò mai smettere di amarla. Ma sarà un amore nostalgico, controverso, quasi masochista. Di quegli amori che vivono di passione ma mancano di stima e rispetto, in cui gli amanti finiscono per prendersi a botte. Ed ora, improvvisamente, tutto sembra avere un senso, anche quello che senso non ha mai avuto: gli insulti a chi la pensa diversamente (malattia che affligge anche qualche lettore di questo blog), i parcheggi in seconda fila anche quando poco più in là ci sono posti liberi, le manovre azzardate sulla strada, l’incapacità di rispettare gli spazi ed i diritti altrui, lo scarso rispetto per il bene comune, la disorganizzazione, la burocrazia, l’arroganza, la carenza di tecnologia, l’ossessione per le apparenze (che spesso ingannano) fino alla sfiducia cronica nelle istituzioni. Certo, l’Eden non esiste ma un posto più civile e, azzardo un aggettivo, “ospitale” di questo (e non parlo del l’ospitalità finalizzata al turismo) ci dev’essere. Anzi, c’è. Ci sono. Lo so per certo, perché ci sono stata. Un posto dove tutti possano sentirsi inclusi, valorizzati e parte di un progetto comune. Il sogno di essere cittadini di un Paese democratico, qualsiasi esso sia. Forse non esistono posti “migliori” ma semplicemente posti più adatti a noi. Dell’Italia voglio tenermi quell’idea romantica che tutti gli espatriati maturano dopo anni di lontananza forzata: un posto magico dove la gente mangia bene, beve buon vino e fa all’amore. La realtà è un po’ diversa lo so…ma ogni idea che ci facciamo è sempre un po’ il frutto della trasposizione dei nostri desideri. Agli italiani auguro di essere quello che non sono mai stati: un popolo. Una comunità. Una società. La speranza dicono sia sempre l’ultima a morire. Nel frattempo ci siamo preparati la fossa.

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